CONTRO LA FORTEZZA EUROPA

kenia fame A otto anni dalla strage del 28 dicembre 1999 in cui persero la vita sei immigrati, il Centro di permanenza temporanea “Serraino Vulpitta” di Trapani continua a esercitare la sua funzione di istituzione totale, anello terminale di una catena repressiva che ha negli immigrati il proprio obiettivo privilegiato.

Solo negli ultimi dodici mesi sono stati tanti gli episodi che hanno dimostrato il carattere oppressivo del CPT trapanese e la sua assoluta invivibilità: alla fine dello scorso anno, gli immigrati reclusi hanno portato avanti per alcuni giorni uno sciopero della fame contro le precarie condizioni di vita all’interno della struttura; a febbraio è stato appiccato un rogo durante una protesta; a luglio con una rocambolesca fuga di massa una decina di immigrati hanno riconquistato la libertà; a novembre un ragazzo di appena vent’anni ha cercato, senza riuscirvi, di scappare dalla detenzione nel CPT.

Tutto questo, perché essere considerato dalla legge un immigrato irregolare significa essere privato della libertà a causa di una normativa che nega la possibilità di costruire una vita e un futuro anche solo a partire dalla ricerca di un’occupazione.

Molto meglio, per gli interessi padronali e di chi gestisce il mercato del lavoro, mantenere un serbatoio di persone ricattabili e sfruttabili attraverso la minaccia della reclusione nei CPT e la quotidiana precarietà di un’esistenza segnata da una clandestinità imposta per legge.

Perché se sei clandestino/a non esisti, e se non esisti non hai diritti.

Lo sanno bene, a Trapani e in provincia, i tanti padroni che sfruttano manodopera immigrata nei campi, nei cantieri, sui pescherecci o nelle case ad accudire anziani; lo sanno bene le mafie che gestiscono la tratta degli esseri umani, un affare di milioni di euro che non esisterebbe senza i dispositivi escludenti della Turco-Napolitano-Bossi-Fini.

Dunque, la spirale repressiva nei confronti degli immigrati non si è affatto arrestata: al contrario, essa si appoggia al razzismo sempre più diffuso in tutto il paese, un razzismo che viene scientificamente sostenuto dalle politiche xenofobe e securitarie volute dal governo Prodi per dare gli immigrati in pasto all’opinione pubblica come capri espiatori a cui addebitare tutti i mali della società italiana.

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Il pacchetto-sicurezza voluto dal ministro Amato e gli altri analoghi provvedimenti approvati dalla maggioranza di Centrosinistra rappresentano un’ulteriore stretta repressiva con cui vengono conferiti poteri speciali a sindaci e prefetti per espellere gli immigrati poveri e tutti i soggetti ritenuti discrezionalmente indesiderabili.

Niente di diverso, a ben vedere, dalle odiose ordinanze razziste dei sindaci leghisti del Nord che tanto hanno fatto discutere ma che trovano piena legittimazione nella politica adottata a livello nazionale del governo di Centrosinistra.

Eppure, nonostante i dati statistici smentiscano categoricamente una relazione diretta tra reati commessi e presenza degli stranieri nel nostro paese, l’allarme sociale legato alla cosiddetta emergenza-criminalità continua a essere fomentato dagli organi di stampa con puntuali campagne che puntano il dito contro gli immigrati e che finiscono con l’alimentare pregiudizi e ostilità.

In questo scenario inquietante, sembra che si vogliano occultare le vere emergenze che affliggono il paese e, in particolare, la Sicilia: mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro, precarietà e disoccupazione, inquinamento, devastazione dei territori, mancanza di strutture per l’accoglienza vera dei lavoratori immigrati.

Trapani, frontiera di un’Europa sempre più chiusa e inaccessibile alle cui porte muoiono ogni anno centinaia di immigrati nel tentativo di raggiungere le nostre coste, è ben lontana dal potersi definire una città accogliente. Le recenti proteste autorganizzate dei richiedenti asilo trattenuti al centro di identificazione di Salinagrande, dimostrano che tutti i tentativi da parte delle autorità locali e nazionali di veicolare un’immagine positiva e rassicurante di questa struttura (gestita dalla stessa cooperativa che gestisce il CPT) si infrangono impietosamente nell’inefficienza e nell’inadeguatezza di un sistema che non riesce a garantire i diritti fondamentali di chi scappa dalle guerre e dalle persecuzioni e, più in generale, dalla miseria e dalla precarietà.

È per questo che l’abolizione della Bossi-Fini senza tornare alla Turco-Napolitano rimane – insieme alla chiusura del “Vulpitta” e di tutti i Centri di Permanenza Temporanea – un obiettivo essenziale della lotta per la libertà di circolazione e per l’uguaglianza sostanziale di ogni donna e ogni uomo, oltre ogni frontiera e contro ogni discriminazione.

Un obiettivo al quale non si può e non si deve rinunciare.

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