PROCESSO PACE LA CULTURA MAFIOSA
TRAPANI – Antonino Occhipinti ex amministratore della “Sicilcalcestruzzi” di Paceco ha deposto oggi – nell’aula bunker del carcere di San Giuliano – nel processo a Francesco Pace, accusato d’essere il capo mandamento – dal luglio 2000 – di Cosa Nostra a Trapani. E’ stata una deposizione per certi versi “toccante” perché, se dobbiamo credere all’Occhipinti, abbiamo assistito ad una dimostrazione di cosa vuol dire “cultura mafiosa”.
Antonino Occhipinti, assieme al fratello Giuseppe, aveva rilevato – da un precedente fallimento – l’azienda di famiglia che operava da decenni nel settore della produzione di calcestruzzo. L’azienda aveva un certo numero di clienti “fissi” della zona che permetteva alla società di “andare avanti”. Ma sul finire del 2000 in azienda si presenta il rag. Roberto Sugameli – racconta Antonino Occhipinti ai giudici – che spiega che Francesco Pace è interessato al business del cemento. Che può realizzare un nuovo impianto in zona – con tutte le negative conseguenze sugli affari degli Occhipinti – oppure acquistare una “quota” nella “Sicilcalcestruzzi”.
Gli Occhipinti, hanno due strade davanti – continua Antonino Occhipinti -: accettare o rifiutare l’offerta. Ma sanno, per “voce di popolo”, chi è Francesco Pace. E come dire di no o “zu ciccio”? Antonino Occhipinti non accetterebbe di “entrare in società” con un un tal “socio”, piuttosto preferirebbe lasciare al Pace l’intera società, ma , probabilmente il fratello Giuseppe – più grande – lo convince.
Si fa l’accordo. Pace diventa socio “occulto” (perché non si può intestare le quote ufficialmente) della Sicilcalcestruzzi e suo figlio Alessandro Rosario viene assunto dall’azienda degli Occhipinti a “sigillo” dell’Accordo. Successivamente – nel 2003 – il Pace verserà all’Azienda i 200.000.000 di lire concordati per rilevare la quota del 50% della società (ottenuti dallo Stato a risarcimento di una ingiusta detenzione!) e i suoi due figli acquisiranno, ufficialmente, il 20% delle quote sociali.
Occhipinti – spiega – che la cessione è avvenuta “malvolentieri”, ma senza “che mi hanno puntato nessuna pistola”. Oggi, dopo aver fatto sette giorni di carcere e aver avuto sequestrata dalla Magistratura l’Azienda di famiglia (“per me la vita”, sostiene Antonino) sa d’aver preso, nel 2001, la strada sbagliata.
A noi la deposizione di Antonino Occhipinti ha “convinto”. Ha convinto che esiste una “cultura mafiosa” di “sottomissione” e che l’imprenditore, spesso, preferisce questa strada, più semplice – almeno all’inizio – a quella di dire “no” al mafioso. Non sappiamo se tale “cultura” è alimentata da una “sfiducia” nelle istituzioni, da una “paura” nelle ritorsioni o da una sorta di “solidarietà” nell’anti-Stato. Sappiamo solo che questa “cultura” è lo “zoccolo duro” su cui si regge la mafia.